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Un’oggettiva difficoltà del mondo barbecue é da sempre la mancata comprensione, totale o parziale, delle espansioni attraverso le quali é possibile realizzare specifici effetti di cottura. Niente di cosi strano in realtà: è già complicato far passare che spiedini secchi e salamelle bruciate non sono un risultato normale ne accettabile, figuriamoci entrare nel merito di eventuali implementazioni tecniche.
La “nonna” di tutta la sequela di incomprensioni applicative nate dagli albori del barbecue amatoriale, é senza alcun ombra di dubbio quella che riguarda l’utilizzo della piastra. Negli anni, l’incapacità di governare i fenomeni che si sviluppavano all’interno dell’area di cottura di un grill ha fatto nascere uno dei luoghi comuni più duri da sradicare: quello che vede la piastra in ghisa quale soluzione per evitare le fiammate dovute alla caduta dei grassi sulla fonte di calore, quasi come se questo fosse un fenomeno dato ed inevitabile.
Ancora troppo pochi hanno capito che invece la piastra é un eccezionale strumento differenziale, probabilmente la più efficace tra le estensioni alla portata comune del griller inesperto. Il suo scopo é quello di massimizzare il punto di contatto con gli alimenti e al contempo di riutilizzarne in cottura i succhi. Ma ancor più di questo, ignorano che le piastre non esistono solo in ghisa ma acquisiscono effetti diversi a seconda dei materiali con i quali vengono realizzate.
Ma adesso é ora di conoscerle meglio attraverso il contatto diretto.
Buona piastra!
Marco Agostini
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